sabato 15 dicembre 2012

Ma un par di fatti vostri, mai?

Ci sono parole che, quando escono dalla bocca di un bambino, fanno un effetto sgradevole, al limite del volgare.
Da giorni ormai Matteo usa l'aggettivo "morto". Quando gli ho chiesto dove avesse sentito quella parola mi ha risposto: "all'asilo, la maestra mi ha detto che quando le persone vanno in cielo, come nonno L., moiono".
Ecco appunto: nonno L. morto un anno prima che Matteo nascesse e per questo, per reazione a questa cosa che ho sempre considerato un'ingiustizia, da sempre presente nelle nostre conversazioni. "Nonno L. è in cielo, non può tornare qui, ma dal cielo ti guarda sempre perché ti vuole tanto bene e quando fai le ninne lui viene a trovarti e con la sua macchina speciale che vola ti porta a spasso tra le nuvole".
Ogni tanto qualche accenno a chi era, alle tante cose che sapeva fare, alle sue passioni. Poco però, perché credo sia più giusto che a raccontare il nonno che è in cielo siano il papà, la nonna e gli zii di Matteo. Io mi limito a colmare un vuoto che l'assurdità di una morte non ancora accettata e metabolizzata rischiava di creare.
Sono infastidita da questa "ingerenza" della maestra. Mi si dirà che è normale, che i bambini prima o poi incontrano anche gli aspetti sgradevoli della realtà, che così crescono, che questa maestra, alla fine, mi ha fatto un favore, che poco importano le parole quando la realtà che esse significano è tanto incontrovertibile e definitiva.
Sarà, ma io questa tendenza a far scontrare i bambini, anche molto piccoli, col principio di realtà, non l'ho mai condivisa.
Mia cognata ha comprato a mia nipote (5 anni) un CD in cui viene spiegato come nascono i bambini. E' stato molto imbarazzante ma ho dovuto dirle che non lo facesse vedere a Matteo; il gigantino pensa ancora che i bambini li porti  la cicogna. Suppongo che la prima volta che si accorgerà di una donna in avanzato stato di gravidanza, avrò molto da ingegnarmi ma inventerò qualcosa. Come quando  mi ha chiesto cosa fosse l'ombelico e io: "Ti ricordi quando ti ha portato la cicogna? Lei ti teneva per una specie di cordicella attaccata al tuo pancino, prima di volar via l'ha tagliata e ha fatto un nodino, ecco quello è l'ombelico!".
Sui fatti importanti della vita bisogna dare ai bambini, ma anche agli adulti, spiegazioni che siano in grado di gestire non semplici parole, per quanto precise. 
Quest'estate all'ennesimo discorso su nonno L. che sta in cielo, papà camp si è sentito porre da Matteo la seguente richiesta: "papà se nonno L. sta in cielo, allora prendiamo un aereo che va in alto, altissimo e andiamo a trovarlo!". Dove abbia trovato la prontezza di spirito per rispondere, non so (a me è venuto da piangere quando me lo ha raccontato e anche adesso che ci ripenso) ma papà camp ha replicato: "no Matteo, non possiamo andare a trovare nonno L. perché se si va in cielo poi non si può più tornare indietro".
Una bella esperienza quella chiacchierata tra padre e figlio, franca e senza menzogne pur non avendo mai usato la parola "morto".


sabato 24 novembre 2012

Assaggi di saggi: "S.O.S Economia ovvero la crisi spiegata ai comuni mortali" - Fabrizio Galimberti

"Ma se il cavallo non beve? Abbiamo ricordato più volte questa disperante eventualità. Tutto quello che può fare la politica monetaria è di mettere soldi a basso costo a disposizione di chi vuol spendere. Può curare un sistema finanziario malato, fare una diagnosi giusta e trovare una terapia efficace. Ma non può obbligare famiglie e imprese a spendere. Cosa fare, allora, se il cavallo non beve?
Semplice: bisogna portare all'abbeveratoio un cavallo assetato. Se non lo si trova fra i "privati", questo cavallo deve venire da un'altra scuderia, quella pubblica. Già nel Capitolo 7 ho scritto:  - se famiglie e imprese non spendono, bisogna che qualcun altro spenda, altrimenti tutto si ferma: questo "qualcun altro" non può essere che lo stato -.
L'arma più diretta - le altre possono essere potenti ma sono indirette- per contrastare la recessione sta nelle entrate e nelle spese del bilancio pubblico. E più nelle spese che nelle entrate. Se si riducono le tasse, lasciando più soldi nelle tasche dei contribuenti, si rischia di ricadere nel problema del cavallo che non beve. Non c'è alcuna garanzia che le minori tasse diventino maggiore spendita dei privati. Invece, nel caso della spesa pubblica, la garanzia c'è per definizione. Riduzioni d'imposte e aumenti di spese costituiscono una politica di bilancio "anticiclica", detta così perché va a contrastare la tendenza spontanea del ciclo; nel nostro caso, la spirale recessiva che è andata avviluppando l'economia mondiale a partire dalla seconda metà del 2008.
Non mette conto fare la cronaca delle misure espansive che sono state adottate nel corso di questa crisi. Sto scrivendo in corso d'opera, e qualsiasi cronaca sarebbe ben presto incompleta. Basti dire che l'America è stata la prima e la più generosa (o la più avventata, secondo alcuni), ma anche in diversi paesi europei e asiatici i bilanci pubblici sono andati tingendosi di rosso. Le misure messe in opera in America sono massicce: il grafico 11 fa vedere come il deficit di bilancio previsto per il 2009 negli Stati Uniti sia più che doppio rispetto a quelli registrati negli anni del New Deal per contrastare la Grande Depressione (i successivi enormi deficit degli anni 1942-45 sono "fisiologici" in tempo di guerra).
Ci sono pericoli in queste misure espansive? Certamente si. Sono pericoli che vale la pena di correre ? Certissimamente si. Questa crisi, in cui sono confluite malattie della finanza e malattie dell'economia, è così brutta che bisogna correre al soccorso con qualsiasi mezzo; e delle conseguenze di questo "pronto soccorso" ci preoccuperemo dopo: a ogni giorno la sua pena. Questo non vuol dire, naturalmente, che bisogna ignorare i problemi che si potranno porre. Bisogna, al contrario, averli ben presenti, e disegnare le misure espansive in modo acconcio: così che abbiano la massima efficacia adesso, e causino il minimo danno in futuro. Ma quali sono questi problemi?"



Premessa: questo libro è stato stampato nel maggio 2009 dunque, necessariamente, esso non parla della crisi economica dell'eurozona che si è resa evidente, in Italia,  solo a partire dalla seconda metà del 2011. Questo libro parla invece della crisi finanziaria che ha colpito gli Stati Uniti d'America tra il 2007 e il 2008, all'inizio conosciuta come "crisi dei mutui subprime" e che, della "nostra" crisi, può essere considerata uno dei fattori scatenanti.*


Per prima cosa fatemi dire che questo è un libro che realizza le aspettative che il lettore medio, digiuno d'economia, si fa leggendone il titolo: alla fine saprete tutto della crisi dei mutui subprime e in più vi sarete fatti una prima idea di cosa sia l'economia e di come essa funzioni.
Non so a voi ma a me, che a malapena conoscevo la differenza tra "debito" e "credito", questo sembra già un risultato notevole. Io che alla domanda di mio marito: "ma perché non stampano più soldi?" rispondevo scandalizzata: "perché altrimenti aumenta l'inflazione!" (senza peraltro averne ben compreso le ragioni), ho scoperto che il premio Nobel per l'economia Milton Friedman ipotizzò che, al limite, per far ripartire un'economia in recessione si potrebbe ingaggiare una flotta di elicotteri che lanciasse dall'alto sacchi pieni di soldi. Chiaramente una provocazione, nonché una soluzione poco equa, ma comunque uno spunto di riflessione sul fatto che, in economia, quando si tratta di superare una crisi, si può essere machiavellici.
Dicevo che leggendo questo libro i profani iniziano a farsi un'idea di cosa sia l'economia. La mia personale idea è che l'economia non sia una scienza come la fisica  che sta lì ad aspettare che il genio di turno scopra le leggi che la regolano. L'economia è nata con l'umana invenzione dello scambio e si è evoluta per tentativi ed errori. Da questo punto di vista le crisi economiche sono eventi "normali" che saranno di volta in volta fronteggiati cercando di evitare errori già commessi in passato (uno degli errori della prima politica economica di Roosevelt, le prime due settimane della sua prima presidenza, fu quello di attuare riduzioni della spesa nel tentativo di realizzare il pareggio del bilancio pubblico, che era stato un tema della sua campagna elettorale; subito dopo tuttavia adottò una politica di segno opposto caratterizzata da una notevole spesa in deficit principalmente finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche. Obama non ha mai ceduto all'argomento dell'eccessiva spesa pubblica e anzi, interrogato da David Letterman in piena campagna elettorale, afferma candidamente [dal minuto 4 circa] di non ricordare neppure con precisione a quanto ammonti il debito pubblico americano).
Lo sapevate che alcune nazioni hanno creato delle "bad bank"? Banche di proprietà dello stato nelle quali mettere in quarantena i famosi "titoli tossici" la cui permanenza sul mercato avrebbe potuto bloccare l'attività finanziaria e che, un giorno chissà, quei titoli potrebbero anche portare dei guadagni?
Per uscire da una crisi, insomma, si possono fare tante cose e Galimberti fa un'analisi puntuale di tutto ciò che il governo americano e la Federal Reserve hanno fatto. Già solo per questo, questo libro andrebbe letto: son cose poco comuni per noi europei abituati ai lacci e lacciuoli con cui il Trattato di Maastricht ha irretito l'azione della BCE (ma questo lo dico io, non Galimberti).
Ma se adesso mi metto a parlare di tutte le cose che ho capito leggendo questo libro va a finire che lo dovrò citare tutto. Faro meglio a dirvi perché, se come me siete ignoranti in economia, dovreste leggerlo:


  • Questo è un libro scritto con chiarezza ed onestà intellettuale (se Galimberti ha delle convinzioni politiche personali, di certo non le troverete espresse qui).
  • Questo è un libro dove anche i concetti apparentemente più semplici vengono comunque spiegati.
  • Questo è un libro che spinge a porsi delle domande. Ad esempio: ma siamo sicuri che l'inflazione che investe una economia in crescita ha gli stessi effetti di quella che si verificasse in una economia in recessione? (Se qualcuno conosce la risposta a questa domanda è pregato di "rivelarmela").
  • Questo è un libro che, come ho già detto, analizza una crisi economica ma nel farlo spiega i principi base che regolano l'economia e svela il lato interessante di questa scienza. Preso per mano da Galimberti il lettore viene accompagnato nei gironi infernali di una crisi che è abbastanza "vecchia" da essere stata studiata da schiere di economisti e, nondimeno, attuale al punto da avere avuto ricadute sull'economia di mezzo mondo, Europa compresa (ahimé!).

Personalmente sono partita con una certa titubanza diventata timore di aver buttato i miei soldi già   nell'introduzione, alla lettura delle seguenti parole: "Come tutte le crisi che si rispettano, questa ci tocca non solo e non tanto come notizia, ma anche e soprattutto come persone che la soffrono e ne soffrono. C'è chi  non trova lavoro, chi l'aveva e l'ha perso, ci sono i precari cui non viene rinnovato il contratto, le famiglie che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, i produttori che vedono crollare gli ordini e i risparmiatori che vedono crollare i risparmi. Io, ad esempio, sono fra questi ultimi, ma, come economista, ho una strana consolazione: considero il gruzzolo che si assottiglia come un biglietto da pagare per assistere a uno spettacolo affascinante: il dispiegarsi di questa crisi, che mi attrae come un'eclissi di sole o un'aurora boreale  [...] Un giorno la racconterò ai nipotini."
Debbo confessare di aver dubitato della salute mentale del Dott. Galimberti. Arrivata all'ultima pagina, però, ero ormai irreversibilmente contagiata dallo stesso interesse. E l'ho ricominciato daccapo. E poi l'ho consultato ancora e ancora.
Per essere il primo libro di economia che leggo direi che è stato un successo.

*Mi auguro che il dott. Galimberti voglia riscrivere questo libro integrandolo con la trattazione della crisi dell'eurozona, magari facendo un comparazione tra le strategie attuate dagli Stati Uniti e dall'Europa. Personalmente correrei ad acquistarlo.

martedì 23 ottobre 2012

Farneticazioni mattutine

Questo è un post di sfogo solo che non ne ho ben chiari gli argomenti dunque è molto probabile che ne venga fuori qualcosa di vago, indefinito e vagamente lamentatorio quindi vi dispenso formalmente dai commenti (ma se vorrete farli vi benedirò dal profondo del cuore).
Sono nervosa e irritabile. 
Si potrebbe pensare sia l'autunno che su certe tipologie di personalità fa sempre qualche effetto notevole. I primi freddi, le piogge, la luminosità diurna che diminuisce. Non fosse che non fanno che ripeterci che quest'autunno è insolitamente caldo e la gente la domenica va al mare come fossero i primi di settembre.
Saranno i problemi con Matteo. Macché! Ci vuole coraggio a dire che il gigantino crei problemi oltre a quelli  naturalmente connessi al dover gestire, da sola, un concentrato di energia e voglia di giocare. Coi bambini è così: "tutti li vogliono ma nessuno se li prende", mai nessuno che si presentasse all'uscio di questa casa dicendo "tranquilla, rilassati un po', Matteo questo pomeriggio sta con me". Io poi non lascio trasparire nulla e non chiedo aiuto salvo poi, all'improvviso, adottare l'espressione "tieniti a una distanza di almeno due metri da me, è per il tuo bene" e cominciare a sbattere tutto quello che mi trovo per le mani. A quel punto però è già troppo tardi.
Ieri sera ho visto "La solitudine dei numeri primi", avevo letto il libro senza trovarlo tutto questo caso letterario che è stato. Il film invece mi ha colpita molto. In particolare il cambiamento fisico dei personaggi principali dalla prima giovinezza alla prima età adulta. Alba Rohrwacher (cui consiglierei senz'altro di cambiare cognome) in particolare è incredibile. Passare dai ventiquattro anni pieni di presunzione di forza e insicurezze controllate ai trentuno in cui ci si è fatti totalmente travolgere da tutto il dolore cui nel frattempo non si è riusciti a dare una spiegazione era difficile, lei è stata credibilissima. Insomma mi è venuta in mente quella frase di Svevo (mi pare) "la vita è una malattia" sempre mortale, aggiungerei. E il corpo registra infallibilmente le cicatrici che questo morbo ci lascia. Certo per alcuni la malattia è blanda ma altri ne verranno travolti e il loro corpo ne riceverà segni indelebili.
FINE PRIMA PARTE (tra un po' si pranza, arrivederci a quando potrò per le farneticazioni seguenti).

venerdì 12 ottobre 2012

Leonardo

Quando Matteo aveva poco più di due anni, sua zia gli regalò una canna da pesca giocattolo; mentre ci giocava col papà è accaduto un piccolo miracolo: papà camp se ne usci con questa frase: "Maatteo impugna la canna da pesca come faceva papà". Per farvi inquadrare la situazione dirò che mio suocero è morto più di un anno prima della nascita di Matteo.
Quando è nato mio nipote, io che non sono brava a riconoscere i tratti dei genitori nei neonati, vidi sul suo volto un'espressione caratteristica del padre.
I nostri figli, che ci piaccia o no, non sono nostre emanazioni esclusive, si portano dentro piccoli pezzi di tante altre persone. Amarli significa, quantomeno, voler bene a questi "altri".
Per dire che i principali responsabili del dramma del piccolo Leonardo sono i suoi genitori. Che poi la cosa si sarebbe dovuta fare in modo diverso, non c'è dubbio. "Zia come faccio?" ha urlato Leonardo mentre degli estranei lo trascinavano a forza via dalla scuola come si farebbe con delinquente. Che li assume a fare lo stato italiano  gli psicologi, per fare che?
Ma dicevo che la colpa maggiore è dei genitori. Della madre che dopo due tentativi di prelievo forzato, ha permesso che si arrivasse al terzo e del padre cui vorrei tanto dire che non basta pranzare e cenare con un bambino che ha vissuto un tale dramma e poi metterlo a letto per sentirsi a posto con la coscienza.
Non ci sono argomenti che possano giustificare i "danni collaterali" della personale guerra che si stanno facendo.
Spero tanto che Leonardo possa recuperare un po' di tranquillità lontano da entrambi, spero che possa avere vicino adulti responsabili che lo aiutino a capire quello che è successo e il suo ruolo in questa storia.
Mi auguro che tutti quelli che hanno sbagliato in questa brutta storia abbiano la decenza, un giorno, di guardarlo negli occhi e di chiedergli scusa. 

sabato 29 settembre 2012

Spannolinamento: ultima frontiera.

Ecco ci siamo: dopo due settimane di uscita alle 12.30 finalmente da lunedì all'asilo inizierà l'orario pieno. Per gli altri bambini, per Matteo no. Lui uscirà, come l'anno scorso, alle 13.30 per via del suo "problemino" con la cacca. Il fatto è che siamo finalmente riusciti a curare le ragadi, ormai fare la cacca è tornato ad essere un fatto normale, non è più una sofferenza, tuttavia di usare vasino o wc non se ne parla ancora. Poiché nella scuola materna non c'è una figura professionale tenuta al cambio del pannolino (anzi il bambino che la frequenta dovrebbe già essere spannolinato) e poiché l'ingresso ai genitori è consentito solo in via eccezionale per cambiare i bambini che eventualmente si sporcassero, non ci resta che uscire anticipatamente nell'attesa che Matteo si decida a compiere il grande passo. Diversamente rischieremmo di ritrovarci punto e a capo perché se Matteo avvertisse lo stimolo in orario scolastico, non avendo il pannolino, tornerebbe a trattenere la cacca. Quanto durerà questa situazione?
Non lo so e "francamente me ne infischio". Il fatto è che ho deciso di abolire totalmente ogni discorso sul tema e di attuare una "autogestione controllata" dello spannolinamento. Si potrebbe pensare che io abbia gettato  la spugna, che mi sia arresa ai capricci e alle testardaggini di Matteo. Non è così. La realtà è che ho osservato attentamente Matteo: ogni volta che fa la cacca il merito non è mai suo; se in quel momento stava mangiando un biscotto allora "è stato il biscotto a far uscire la cacca", se poco prima aveva fatto una corsa allora "è stata la corsa", se il papà lo aveva messo sulla moto "è stata la moto" e via discorrendo. Non è mai merito suo, non è mai lui che la fa uscir fuori. Ancora fino a pochi giorni fa, quando appunto ho deciso di usare questa strategia, l'espressione del suo viso quando si rendeva conto che stava per farla era di paura mista a sgomento. E' stato allora che ho capito quanto per lui fare la cacca potesse essere difficile e quanta importanza avesse il pannolino, unico alleato, una sorta di salvagente, di talismano. E allora mi son detta "ma chi sono io per imporgli di farne a meno, che ne so io delle sensazioni e del disagio che il suo corpo gli trasmette?". Proprio ieri una delle maestre si lamentava di come anni fà i bambini fossero tutti pressoché spannolinati all'entrata nella scuola materna e parlava della necessità che i bambini raggiungano l'autonomia il più precocemente possibile. 
A parte il fatto che la pediatra mi ha tranquillizzato sostenendo che non c'è nulla di cui preoccuparsi se un bambino di quasi quattro anni che ha avuto le ragadi indossa ancora il pannolino, ma siamo sicuri che si possa raggiungere l'autonomia per imposizione? E se un bambino non è interessato a farlo, è lecito sottoporlo a ricatti morali del tipo "finché porterai il pannolino sarai sempre un bimbo piccolo"? Non sarà invece che l'autonomia che ci interessa è la nostra, quella di noi genitori?
Ero immersa in questo tipo di riflessioni quando mi sono imbattuta in questo, sono dei consigli che alcune mamme della Leche League danno ad un'altra mamma con un problema di spannolinamento molto simile al mio. Ebbene sono rimasta colpita dall'espressione "svezzamento dal pannolino" che una di loro ha usato, perché ripensando al nostro svezzamento dal latte mi è tornata in mente la complessità e la lunghezza di quel percorso. Avrei potuto "velocizzare" il tutto sopportando qualche giorno di protesta disperata ma non l'ho fatto perché volevo qualcosa di più dolce e, soprattutto, di condiviso; mi interessava che Matteo avesse una parte attiva in questo nuovo modo di relazionarci. Alla fine penso di aver ottenuto ciò che volevo. Certo ci son voluti tanto tempo e tanta pazienza, cose che avevo allora e ho anche oggi. Ecco, l'unico aspetto positivo dell'essere una mamma a tempo pieno è che si può, il più delle volte (ma non sempre ché anche noi abbiamo i nostri problemi), rispettare i tempi dei bambini.
Allora basta con le sedute sul vasino, basta con i discorsi sulla cacca (a meno che non sia Matteo ad intavolarli), basta con le mie esigenze anteposte alle sue.
Ho deciso di dare fiducia a Matteo e di rispettare i suoi tempi. So che un giorno mi stupirà.
E quel giorno dalle finestre di casa nostra voleranno pannolini.
Evviva!

venerdì 7 settembre 2012

venerdì 24 agosto 2012

Degustazioni letterarie: "Teresa Batista stanca di guerra" - Jorge Amado


"Durante quella giornata vuota e torbida insieme, avvenne un mutamento sottile nei rapporti tra i due amanti, impercettibile tanto per gli estranei che per gli intimi. Teresa per il dottor Emiliano cessò di essere un giocattolo, un caro trattenimento, una fonte di piacere, il passatempo di un ricco vecchietto con la mania dei libri e dei vini o del raffinato gran signore disposto a trasformare un'ignorante ragazzina di campagna in una perfetta signora con una vernice di buone maniere, di delicatezza, di buon gusto, di eleganza: guidandola, anche a letto, dall'esplosione violenta dell'istinto alla sapienza delle carezze prolungate, al piacere raffinato che sa sfruttare l'istante sino in fondo, fino alla scoperta e alla conquista delle illimitate gradazioni della voluttà; facendo di Teresa al contempo una femmina eccezionale e una signora di qualità. Un passatempo appassionante, ma pur sempre un passatempo, un capriccio.
Fino a quel giorno di cenere Teresa si era considerata essenzialmente in debito verso il dottore e la gratitudine occupava un posto preponderante tra i sentimenti che la legavano all'industriale. Egli l'aveva fatta liberare dal  carcere, era andato poi personalmente a prenderla in una miserabile stanza di un postribolo per farne la sua amante; l'aveva trattata come se lei fosse qualcuno, una persona, con bontà e interesse. Le aveva dato calore umano, tenerezza, tempo e attenzione, sollevandola dall'ignominia e dalla indifferenza verso il proprio destino , insegnandole ad amare la vita. Teresa aveva visto nel dottore un santo, un dio, qualcosa di molto al di sopra di tutti gli altri e questo la rendeva umile davanti a lui. Non era la sua pari, né lei né nessun'altro lo era. Soltanto a letto, nell'ora dell'abbandono essa lo considerava un uomo di carne ed ossa, ma pur sempre superiore agli altri nel dare e nel ricevere. Né alla stregua dei sensi, né a quella dei sentimenti esisteva per lei chi gli si potesse comparare. 
Ma quando aveva scelto tra il dottore e la vita che le inturgidiva il ventre, Teresa, senz' accorgersene, aveva riscattato il suo debito. Nel crudo e freddo istante in cui aveva dovuto rinunciare al figlio e aveva disposto della vita e della morte di un altro essere essa non poteva esitare e non aveva esitato. In un attimo aveva dovuto mettere sulla bilancia i massimi valori umani e aveva collocato il suo amore di donna al di sopra dell'amore di madre; non c'è dubbio che la gratitudine aveva svolto un ruolo molto importante in quella scelta."

Come si fa a spiegare perché è una bella esperienza leggere Amado? Bisogna leggerlo e perdersi nei suoi mondi, lasciarsi trasportare tra le strade e le storie della sua Bahia, ammirando la ricchezza della sua narrazione, la fertilità dei suoi protagonisti: ogni persona che incontrano diventa storia essa stessa. 
Questo libro intesse le storie di Teresa Batista, femminea entità dalla sovrumana (divina?) forza; capace di superare prove terribili eppure donna in carne e viscere dove la morte è entrata, non una, ma ben due volte.
Certo se fosse esistita realmente, Teresa sarebbe stata davvero un'"encantada", una divinità venuta a ricordarci che la Vita mai si ferma, ad aspettare d'estinguersi. Paradossalmente Teresa è tutto nella sua vita: schiava, signora, prostituta, guaritrice, ballerina ma mai madre, quasi a ricordarci che la maternità ha più a che fare con la Vita che con i figli. Sembra una bestemmia, sulle dolci labbra di Teresa, che si possa sacrificare un figlio all'amore per un uomo. Lei lo fa. Alla fine della storia però, tutto getterà in mare, il male e il bene, ma "colui che non era arrivato ad essere" quello lo lascerà dentro di se, per ridarlo alla vita, nella sua nuova vita, tanto desiderata, cercata e, infine, trovata.
Eppure se Amado comparisse qui davanti a me gli chiederei, dopo doveroso inchino, perché mai niente ha risparmiato alla già provata Teresa, neanche il dolore più insanabile? E lui forse mi ricorderebbe le parole di Lulù: "Teresa Batista assomiglia al popolo e a nessun'altro: al popolo brasiliano così rassegnato, mai sconfitto: Che quando lo credono morto, risorge ancora dalla bara".




giovedì 19 luglio 2012

Tutto da rifare


Ricordate quello che ho scritto nell'ultimo post riguardo a Matteo e ai nostri problemi con la cacca? Ebbene c’era qualcosa di troppo strano nel suo atteggiamento, allora ho cercato in rete e mi sono imbattuta in questo.
Sconvolgente, vero?
Tanto più che anche Matteo tende a trattenere la cacca per più giorni e l’ultima volta, farla, gli ha procurato dolore. Ho chiamato  la pediatra la quale mi ha spiegato che forse sono stata troppo insistente con questa storia di togliere il pannolino e che questo lo ha portato a trattenersi per paura di sbagliare. A loro volte le feci non espulse gli hanno provocato delle ragadi, le quali rendono l’evacuazione (che avviene solo quando indossa il pannolino) dolorosa.
Insomma un brutto circolo vizioso che potrebbe portarlo alla stitichezza!
La strategia propostami è stata la seguente:


1. curare le ragadi

2. tornare al pannolino in modo che sia “pronto” non appena sente lo stimolo invece di trattenersi aspettando che io glielo metta.

Che dire: ho combinato un bel pastrocchio tanto più che adesso debbo spiegare a Matteo il perché di questo passo indietro. Fortuna che già da qualche giorno avevo iniziato a “sdrammatizzare” l’argomento con una serie di approfonditi ragionamenti sulle svariate forme, consistenze, colori e odori della cacca. Debbo dire che Matteo è molto interessato all’argomento. In particolare è rimasto colpito quando gli ho detto di non aver mai visto una cacca rosa e profumata nonché dall’esistenza della mitica “diarria”, cacca gialla, liquida e puzzolentissima accompagnata da bue grandi al pancino.
Tempistica perfetta così adesso posso dirgli che la sua è una cacca paurosa che non vuole andare nel water e nemmeno nel vasino, allora rimane nel suo sederino ma così gli fa le bue. Dobbiamo farla uscire e per riuscirci gli dobbiamo fare uno scherzetto: mettiamo il pannolino così lei uscirà pensando di sporcargli le mutandine e di far arrabbiare la mamma e invece noi la butteremo via. Ah, ah, ah!
Vi sembra credibile?
Mah, speriamo. Sempre nell’ottica di sdoganamento estremo della "materia" ho finalmente scelto uno dei libri sull’argomento cacca (sono tantissimi) da proporre a Matteo. Pare sia un best seller nel genere.
Ma insomma: ho spaventato Matteo con le mie reazioni esagerate invece di tranquillizzarlo e aiutarlo a prendere fiducia in se stesso!
La cosa peggiore è che, ancora adesso, faccio fatica a capire quando e come ho combinato questo disastro. 
E adesso una canzone del mitico Silvestri che in questo caso ci sta tutta:


venerdì 6 luglio 2012

Pipì, popò, papà -aggiornamenti-



L'anno scorso l'apparato urinario maschile mi dava molto da fare e da pensare, quest'anno pure...

PIPI’: Spesso noi genitori del tutto arbitrariamente chiediamo ai nostri figli di fare cose che ancora non sono in grado di fare, ci investiamo tempo e dosi eccezionali di calma e pazienza per lo più senza ottenere risultati o, quando li otteniamo, sottoponendo i nostri figli a stress inutili e dannosi.
Un anno fa, di questo periodo, ero angosciata dal problema dello spannolinamento, più tardi avrei provato con impegno e tenacia ottenendo l’unico risultato di indisporre Matteo e indispettire me stessa. Fortuna che alla fine sono una persona intelligente e ho rimandato tutto a data da destinarsi.
Oggi Matteo mette il pannolino solo quando dorme ed è capace di riconoscere e controllare (il più delle volte) lo stimolo alla minzione. Manca ancora l’abilità di abbassarsi i pantaloni e le mutandine e una certa naturale confidenza con le sue parti intime, ma verranno.
Ecco: stava tutto nell’aspettare il nostro momento giusto. Mi stupisco sempre nel constatare come la crescita dei bambini proceda per “balzi”. Dopo un intero inverno in cui ha portato il pannolino, nel giro di pochi giorni, Matteo ha subito “afferrato” quella serie di comportamenti necessari a fare senza.

POPO’: in compenso qui non ci siamo affatto. Matteo non ce la fa proprio a farla nel water e neppure nel vasino. Quando mi accorgo che è il momento lo invito ad andare in bagno ma lui mi dice “no mamma vai via, esci!"; dopo qualche minuto si ripresenta col passo impacciato e il visino piagnucoloso di chi non ha fatto la cosa giusta ed è dispiaciuto. A me fa tanta tenerezza. Sto cercando di capire cosa c’è sotto ma non posso influenzarlo con troppe domande. L’altro giorno salta fuori che “la cacca fa paura”, ignoti, tuttavia, restano ancora i motivi di tale timore; allora gli ho detto “la prossima volta  chiamami che ti aiuto io a spaventarla”.
Sarò mica più infantile di mio figlio?

PAPA’: mentre l’apparato urinario di Matteo si sviluppa, quello di papà involve: si è verificata una complicazione classica legata all’intervento che ha subito e ha perso la funzionalità di un rene. Per salvare l’altro, dovrà sottoporsi ad un'altra procedura non priva di conseguenze per la residua qualità della sua vita. Adesso è tutto chiaro ma è da febbraio che tra inutili e ineluttabili perdite di tempo, tentativi ed errori e ricoveri prolungati questa cosa va avanti e, proprio adesso che arriva la parte più complicata, io ho perso un po’ dell’energia necessaria. Ma tanto la ritroverò, lesinando a destra e a manca, perché io allo sguardo spaurito che mio padre (a ragione) assume in certi momenti, non sono capace di resistere.
Speriamo bene.

domenica 17 giugno 2012

Come un elefante in una vetreria


 Il giorno in cui ho partorito portavo al collo una collanina sottile con un ciondolo a forma di cuore. La mia vicina di stanza mi ha suggerito di toglierla, ché mi avrebbe dato fastidio durante il travaglio, un po’ impaurita l’ho tolta e l’ho messa dentro il portafoglio. E’ rimasta lì per qualche mese, prima che mi decidessi a riporla per bene.
Unico ornamento di quel periodo è stato il braccialetto di identificazione azzurro che associava infallibilmente me a mio figlio. Penso di averlo tenuto al polso per circa due mesi, suscitando la curiosità preoccupata di parenti, amici e conoscenti. L’ho tolto quando ho iniziato a superare il trauma del parto.
Successivamente, un giorno qualunque del primo anno di vita di Matteo, ho  sentito la voglia di rindossare una collanina. Ne ho molte, e ho molti ciondoli, fatti per lo più di pietre dure dalle forme anticheggianti. Quel giorno scelsi un ciondolo con una pietra color viola scuro e una collanina in oro bianco. L’ho messa e non l’ho più tolta, salvo quando me lo ha chiesto Matteo.
Adornarsi è un’attività specifica dell’essere umano, anche tra le popolazioni meno evolute tecnologicamente, dunque è chiaro che i bambini, nella misura in cui crescendo ripercorrono l’evoluzione filogenetica dell’uomo, esprimano questo bisogno. Eppure quando Matteo mi chiede “mamma mi dai la tua collana?” non ha semplicemente voglia di essere più bello né sta solamente esprimendo il suo gusto estetico; piuttosto questa domanda fa il paio con “mamma adesso ti regalo questa così fa le ninne con te” frase che mi dice alla sera, nel lettone, porgendomi una delle sue macchinine mentre nelle sue manine ne stringe altre due.
Così, ogni tanto e solo dietro sua richiesta, io tolgo la mia collanina e gliela metto al collo e lui è felice e soddisfatto. Poi aspetto, per lo più qualche ora, il momento in cui ad essere felice e soddisfatta sono io perché lui mi guarda e mi dice “adesso mamma toglimela”. Felicità un po’ amara di ogni mamma che vede il suo bimbo crescere.
Non mi importa se la gente ci guarda incuriositi, non mi interessa cosa possano aver pensato le maestre o i suoi compagni d’asilo perché ogni volta che Matteo chiede la mia collana io penso che lo faccia perché ha bisogno di sentirmi vicina.
Mi tornano in mente le parole della nostra pediatra: “ai bambini bisogna saper dire anche di si, non solo di no” e bisogna anche sforzarsi di capire il senso delle loro richieste, aggiungo io.
Così la mia collanina addosso a lui sta a significare la sua capacità di esprimere il bisogno della mia vicinanza e la mia sensibilità a cogliere tale bisogno.
Ebbene, tutto questo significato ogni tanto si scontra con la superficialità di chi sta accanto alla coppia madre-figlio: l’altra mattina Matteo ha chiesto la collanina, io gliel’ho messa al collo e dopo averlo lasciato dalla nonna, l’ho rivisto solo alla sera. Allora, dopo esserci salutati, dopo aver giocato un po’, mi si avvicina e mi chiede di togliergli la collana, io lo faccio, lui scappa dentro casa. Appena lo vedono, sento la nonna esclamare: “finalmente hai tolto quella collana da femminuccia” e poi la zia “devi dire a mamma di comprartene una da maschietto”.
E’ chiaro che nulla di irrispettoso nei miei confronti può essere ravvisato nella parole di nonna e zia eppure all’ascoltarle ho sentito, in sottofondo, il fragore prodotto dai movimenti di un elefante in una vetreria di Murano. “Crac, crac, crac”: oggetti di indicibile finezza e delicatezza travolti da zampe talmente tozze e dure da non essere neppure ferite dai cocci.
Ferita però mi sono sentita io, al pensiero che Matteo potesse trovarsi d’accordo con un ragionamento che, oggettivamente e logicamente, non fa una piega e che pure, se lui ne fosse rimasto colpito, potrebbe porre fine a questo nostro gioco.
E la magia a poco a poco se ne va.
Ma non è detto...



mercoledì 23 maggio 2012

Capaci 23/05/1992, io non dimentico.

Sono passati venti anni e sembra ieri. 
Falcone e Borsellino io li metto nel computo dei grandi italiani e dell'Italia con la "I" maiuscola e tuttavia ogni volta mi dico che il loro sacrificio si doveva evitare.
Mi pare superfluo aggiungere altro e poi le parole mi mancano; allora farò parlare, o meglio cantare, Daniele Silvestri perché i grandi artisti hanno il dono di saper esprimere i sentimenti di tanti.
La prima canzone è "l'appello" dichiaratamente dedicata a Paolo Borsellino, non vi fate ingannare dalla melodia scherzosa, il messaggio è serissimo: al di là delle pubbliche contrizioni, dopo venti anni rimangono zone oscure in questa vicenda che nessuno riesce, o vuole, chiarire. 
Noi siamo ancora qui a denunciarlo.

La seconda canzone "in un'ora soltanto" non ha probabilmente legami con le vicende di Falcone e Borsellino eppure, fin dal primo ascolto, a me ha fatto pensare a loro, alle loro vite, che non erano fatte solo di lavoro, che avevano una dimensione privata, che sono state spazzate via con violenza cieca e disumana;

"Niente resterà come prima" dice Daniele, ecco questo è l'impegno che noi tutti dovremmo prenderci per dare un senso alle stragi di Capaci e via d'Amelio. Soprattutto adesso, a distanza di venti anni. Altrimenti tutto sarà stato inutile.

giovedì 10 maggio 2012

Degustazioni letterarie: "La mossa del cavallo" Andrea Camilleri

"Patre Artemio Carnazza era un omo che stava a mezzo tra la quarantina e la cinquantina, rosciano, stacciùto, amava mangiari e bìviri. Con animo cristiano era sempre pronto a prestare dinaro ai bisognevoli e doppo, con animo pagano, si faceva tornare narrè il doppio e macari il triplo di quello che aveva sborsato. Soprattutto, patre Carnazza amava la natura. Non quella degli acidruzzi, delle picorelle, degli àrboli, delle arbe e dei tramonti, anzi di quel tipo di natura egli altissimamente se ne stracatafotteva. Quella che a lui lo faceva nèsciri pazzo era la natura della fìmmina che, nella sua infinita varietà, stava a cantare le lodi alla fantasia del Criatore: ora nìvura come l' inca, ora rossa come il foco, ora bionda come la spica del frumento, ma sempre con sfumature di colore diverse, con l'erbuzza una volta alta che sontuosamente oscillava al soffio del suo fiato, un'altra volta corta corta come appena falciata, un'altra volta ancora fitta e intrecciata come un cespuglio spinoso e sarvaggio. Sempre si meravigliava quanno che ne vedeva una nova, perché nova novissima era veramente con tutto il suo particulare da scoprire, da percorrere centilimetro appresso centilimetro fino alla grotticella càvuda e ùmita dintra alla quale trasìre a lento a lento, adascio, che doppo era la grotticella istessa ad afferrarti stretto, a inserrarti le sue pareti intorno, a portarti fino al fondo più fondo in dove che stimpagna l'acqua di vita." 

Sicilia, 1877: sull'isola sbarca Giovanni Bovara da Genova, funzionario statale del neonato (ma già fiscalmente organizzato) Regno d'Italia col compito di vigilare sulla riscossione della tassa sul macinato. Siciliano d'origine, ma trasferitosi a Genova all'età di tre mesi, con stupore e indignazione tipicamente genovesi, il Bovara scopre e solertemente denuncia una sistematica truffa ai danni dell'erario. Da quel momento si innescherà un carosello di eventi che lo porteranno ad essere accusato dell'ultimo omicidio verificatosi in paese. Il povero Bovara non c'entra nulla , ma quale occasione migliore per toglierselo di torno? Ogni tentativo di autodifesa sembra peggiorare la sua situazione finché il giovane non capisce che l'unica sua possibilità di salvezza consiste nel recupero del dialetto siciliano. Per farsi capire? No, piuttosto per pensare come i suoi accusatori e dunque, come in una partita a scacchi, prevederne le mosse.
Nel passaggio da "Voi mi state facendo impazzire coi vostri cavilli" del primo interrogatorio a "lu sapi com'è ca succedi, signor giudice? Ca unu parla e riparla sempri di l'istissa cosa e cchiù ne parla e cchiù la cosa si acclarisce dintra di lui. A mia sta capitando accussì" l'intendente comunica di aver compreso le regole e di essere capace di giocare. Infatti si salverà benché tutto, alla sua dipartita, continuerà come prima.
Ve ne sarete accorti: questo libro è scritto quasi tutto in dialetto siciliano e, dove non c'è il siciliano, c'è il genovese. Ma tranquilli perché il siciliano è patrimonio linguistico di qualsiasi italiano, lo si capisce, per lo più e lo si può contestualizzare. Stessa cosa non si può dire del genovese, davvero ostico. E come mai l'editore non ha preteso note a margine con traduzione? Tanto più che l'unico  ad usarlo è il protagonista del romanzo? Forse perché l'intento dello scrittore era quello di far emergere un modalità emotiva di comprensione del linguaggio. Difatti, per chi non conosca questo dialetto, l'unica cosa sensata è quella di affidarsi al ritmo, alla musicalità correlandoli al senso delle poche parole che si conoscono e immaginando tutto il resto. 
E infatti in questo romanzo Camilleri dimostra una padronanza assoluta del linguaggio: Il "Faldone A" e il "Faldone B", che contengono la parte documentale (perché scritta) della vicenda, sono un caleidoscopio linguistico: dalle lettere dell'intendente Bovara ai superiori a quelle dei deputati ai ministri, dai rapporti dei Carabinieri ai richiami alla "christiana charitas" del Vescovo, passando per gli articoli dei giornali collusi e le richieste di trasferimento di procuratori scomodi. A ciascuno il suo linguaggio con i suoi registri, toni, formule, ammiccamenti. Il tutto al comando del mago Camilleri.

Se un giorno finalmente la smetteremo, noi italiani, di essere bacchettoni come siamo, se un giorno i programmi di studio diventassero un po’ più interessanti (non sarà mai troppo presto), allora quel giorno si potrà confrontare la figura di Don Abbondio con quella di Padre Carnazza, traendo le consone (all’evoluzione culturale e civile del momento) conclusioni sulle “invarianti dell’italianità", le costanti caratteriali (forse geneticamente determinate?) per cui i secoli passano ma i difetti restano.
Fortuna che resta pure il genio letterario, allora quello di Manzoni, adesso quello di Camilleri.

giovedì 19 aprile 2012

Fare di conto

Che tristezza: ieri sera ho scoperto che il "rimborso" elettorale va in base al numero degli iscritti nelle liste elettorali e non in base a quello degli effettivi votanti. Siete mica a conoscenza di qualche causa di sospensione temporanea del diritto di voto? 
Che tristezza, ragazzi! 
Che sfiducia generalizzata!
Quando è nato Matteo non ho potuto fare la donazione del sangue del cordone ombelicale perché nell'ospedale dove ho partorito non si fa. Mancano i soldi per organizzare il trasporto dei campioni alla più vicina banca del sangue. Se dimezzassimo i fondi ai nostri partiti, con il resto, quanta speranza dite che riusciremmo a "trasportare" in giro per l'Italia? Quanta vita? 
Che rabbia!
Anche se risultasse essere l'unico parlamentare "pulito" della Lega Nord, non perdonerò mai a Maroni di aver buttato una cifra stimabile fra i cinquanta e i settanta milioni di euro per aver deciso che gli ultimi referendum si svolgessero in un giorno diverso da quello delle elezioni. A nulla valsero i tentativi di comunicazione. Già a me questo fatto di non riuscire a sapere con precisione se erano cinquanta o settanta milioni da ai nervi. Perché la differenza tra settanta e cinquanta è venti. Sapete cosa ci si potrebbe fare con dei soldi che non sappiamo nemmeno bene se abbiamo speso o no? Con venti milioni di euro si bonifica Broni il comune dove ha sede la Fibronit fabbrica che utilizzava amianto per la produzione di cemento. Morti ci sono stati e morti continueranno ad esserci, per anni. E quanto amianto c'è, sparso ancora per l'Italia? Se con ventuno milioni di euro si bonificano i disastri della Fibronit, con cinquanta milioni o settanta, a quanto amianto prossimo a noi possiamo impedire di entrarci nei polmoni?
Maroni non poteva saperlo né prevederlo e magari, l'avesse saputo, se ne sarebbe altissimamente stracatafottuto ma quei cinquanta o settanta milioni di euro sono per me diventati una sorta di metro magico. Ci misuro le cifre esorbitanti che ruotano attorno alla politica e le comparo con la vita reale. 
E mi ritrovo a pensare che per una questione di principio, si, ma soprattutto per una di soldi, io i miei quattro euro non li voglio dare a chi ne non ne conosce il valore.
Ma tanto loro se li prenderanno comunque.
Che tristezza.


venerdì 13 aprile 2012

Degustazioni letterarie: "Bambini nel tempo" Ian McEwan

"Da giorni ormai sentiva il desiderio di fare un salto al negozio di giocattoli, a una decina di minuti a piedi dall'appartamento. Un'idea ridicola. Una sorta di parodia del lutto. La sofferenza volontaria che ne derivava lo faceva gemere ad alta voce. Si sarebbe trattato di una recita, la messa in scena di una follia non autentica. Intanto però il pensiero si faceva più insistente. Si trovava magari a passeggiare in quella direzione e immaginava il genere di cose che avrebbe comprato. Era pazzia, debolezza, gli avrebbe procurato un inutile dolore. Ma il pensiero continuava a crescere e una mattina, all'edicola, prese un rotolo di carta coloratada pacchi e la porse al commesso prima di avere il tempo di cambiare idea. L'acquisto di un giocattolo avrebbe distrutto due anni di adattamenti, sarebbe stato irrazionale, malato, autolesionistico e debole, soprattutto debole. Di quella debolezza che impedisce di conservare la linea di confine tra il mondo com'è e come si desidera che sia: non essere debole, si ripeteva, cerca di sopravvivere. Butta via quella carta, non franare nelle fantasticherie, non prendere quella china. Potresti non tornare più indietro. E resisteva, ma non poteva impedirsi di desiderarlo.
La solitudine aveva aumentato in lui la tendenza alla superstizione, alle interpretazioni magiche della realtà. Le pratiche superstiziose avevano finito con l'aderire ai cerimoniali quotidiani e, nel costante silenzio della compagnia di se stesso, si erano fatte sempre più rigorose. Si sbarbava sempre prima la guancia sinistra, non incominciava mai a lavarsi i denti se non aveva rimesso il tappo al tubetto del dentifricio, azionava lo sciacquone del water con la mano sinistra benché gli fosse scomodo e, ultimamente, faceva attenzione a poggiare entrambi i piedi a terra scendendo dal letto. Tale struttura magica del pensiero trovò modo di razionalizzare una visita al negozio di giocattoli.
Prima di tutto, avrebbe rappresentato un atto di fede nella sopravvivenza della sua bambina. Dal momento che di sicuro lei non avrebbe celebrato quel giorno, sarebbe stato come riconfermare la  sua precedente esistenza e reale discendenza, ribadire la verità circa la sua nascita: chissà quante bugie le avevano raccontato a questo proposito. L'osservanza di un mistero avrebbe scatenato ignote combinazioni del tempo e del caso, i numeri magici delle date di nascita si sarebbero messi in funzione producendo una serie di avvenimenti che, altrimenti, non si sarebbero mai realizzati. Comprando un regalo avrebbe dimostrato di non essersi ancora dato per vinto, di potere ancora mettere in atto qualcosa di sorprendente e di vivo. Lo avrebbe fatto con gioia anziché con dolore, nello spirito di un'affettuosa stravaganza e, portandolo a casa per impacchettarlo, avrebbe celebrato un'offerta al fato, o lanciato una sfida al destino: ecco qui, io ho portato il regalo, ora voi riportatemi la bambina. Se l'acquisto gli avesse procurato della sofferenza, sarebbe stata quella necessaria alla realizzazione di un sacrificio. Dopo aver esaurito tutte le possibilità sul piano materiale, battendo a tappeto le strade, pubblicando sui giornali locali inserzioni nelle quali offriva generose ricompense in cambio di informazioni, incollando ingrandimenti fotografici alle fermate degli autobus e sui muri, ormai aveva solo più senso agire a livello simbolico e oracolare, unirsi a quelle forze sconosciute che regolano le leggi della probabilità, che distribuiscono gli atomi rendendo solidi i corpi solidi, che mettono in atto gli avvenimenti fisici e compiono i personali destini di tutti gli individui. Del resto che cosa aveva da perdere?"



Immaginate di essere al supermercato con la vostra bambina di tre anni: è vicinissima, vi voltate un attimo a parlare con la cassiera e quando rigirate la testa, lei non c'è più. Voi la cercate dapprima con leggerezza, poi più   preoccupati, poi spaventati, poi disperati. E passano ore, giorni e mesi. Anni, addirittura, e di lei niente. Non so voi ma io non ci riuscirei mai.
Lo ha fatto, invece, Ian McEwan e in modo magistrale. La disperazione di un padre, Stephen, che si ritrova a vivere un'esistenza all'improvviso priva di significato, il suo viaggio doloroso e coraggioso, aggrappato al niente, verso l'accettazione del dolore e il ritorno alla vita. Già per questo varrebbe la pena leggere questo libro e tuttavia il motivo più importante sta da un'altra parte; uno potrebbe spaventarsi a pensare all'angoscia che uno scrittore alle prese con un tema così, ci riverserà addosso. E invece no: si prova empatia per questo padre, si soffre insieme a lui tuttavia se ne rimane sempre ad una distanza tale da non essere annientati noi stessi dal suo dolore. E' un chiaro intento dello scrittore: mentre il dramma del protagonista viene presentato senza omissioni o edulcorazioni, continuano a far capolino personaggi complementari o secondari, eventi apparentemente senza importanza, che ci distolgono dalla contemplazione del dolore. Solo alla fine ci si rende conto che ogni "pezzo" (anche le stranissime e apparentemente incongrue citazioni all'inizio di ogni capitolo) era proprio dove doveva essere affinché il lettore capisse che il senso ultimo di questo libro trascende il dramma umano del protagonista per offrire una bellissima visione dell'infanzia come risorsa primaria di ciascun individuo. 
"Child in time" non è la figlia perduta, lei anzi è immobile nel tempo, è invece il papà che torna continuamente alla sua infanzia e ne trae le risorse per "rinascere". Si può anche trovare il modo di attraversare il tempo a patto che ad attenderci ci sia qualcuno. Perché "Child in time" è anche l'amico del papà, disperato pure lui, che questo viaggio non è mai riuscito a farlo, rimanendo così irrimediabilmente privo del senso fondante la sua stessa vita.
Ne discende che non si "smette" mai di essere bambini, anzi l'infanzia è considerata il nucleo esistenziale essenziale di ogni individuo. Non a caso nel percorso di "rinascita" Stephen si affiderà al pensiero magico, alla creatività, alla corporeità e, soprattutto, alla ricerca dell'originaria accettazione da parte di sua madre.
Ma a cosa serve che io svilisca questo bellissimo romanzo, parlandone? Dovendo oltretutto stare attenta a non rivelarvi particolari che vi sciuperebbero il piacere di navigare a vista, secondo la vostra personale rotta.
Leggetelo perché questa è grande letteratura, leggetelo soprattutto se siete genitori.

sabato 31 marzo 2012

Son soddisfazioni!

Ieri siamo stati dalla "nostra" pediatra per la visita di controllo dei tre anni, veramente avremmo dovuto farla a dicembre ma tra il lavoro, le feste e soprattutto un rifiuto da parte mia degli ambienti medici, son passati tre mesi. Comunque, come volevasi dimostrare, Matteo gode di ottima salute è solamente un pochino in sovrappeso ma niente di allarmante. Io sono una mamma che quando porta il figlio dal pediatra dedica poca attenzione alle questioni strettamente mediche preferendo sfruttare il poco tempo a disposizione per porre domande sullo sviluppo cognitivo e psicologico. La "nostra" pediatra per fortuna è sempre disponibile a chiarire i miei dubbi difatti si è soffermata a lungo ad osservare il disegno che Matteo le aveva portato facendomi notare come la scelta dei colori usati dimostrasse la sua positività e felicità. Allora le ho chiesto il suo contributo chiarificatore sul dubbio del momento
"Dottoressa come mai Matteo quasi tutti i giorni fa un sacco di storie per andare all'asilo ma poi, non solo ci va, ma le sue maestre mi dicono che è un bambino calmo e tranquillo, che non si vede e non si sente? Sarà mica un caso di sdoppiamento della personalità precoce?"
E lei, trattenendo a stento una risata. "Signora mi scusi ma lei era felice, da piccola, di andare tutti i giorni a scuola? Francamente io mi preoccupo di quei bambini che sono entusiasti di andare all'asilo a tal punto che vorrebbero starci sempre perché è probabile che a casa c'è qualcosa che non va. Lei non si preoccuperebbe se suo marito volesse andare a lavorare anche di domenica?"
(Che genio la mia pediatra!)
"Vede il comportamento che suo figlio assume all'asilo dipende dal fatto che è un bambino abituato a seguire delle regole, per questo quando è all'asilo è calmo e tranquillo, molti bambini invece manifestano grande disagio a starci, che può arrivare a manifestarsi in veri e propri malesseri fisici, perché non sono in grado di sopportare i limiti che l'ambiente scolastico comporta."
"Ma allora perché se lì è così bravo e tranquillo, poi a casa diventa un terremoto?"
"Signora ma a nessuno fa piacere seguire le regole e i bambini sanno che a casa, vuoi per quieto vivere, vuoi per stanchezza, spesso i genitori cedono. Vede è vero che con i bambini bisogna saper dire "NO" ma è anche importante saper dire "SI". Suo figlio, per me, è una mosca bianca: si è fatto visitare tranquillamente e adesso, che la visita è finita, sta giocando. Questo significa che sa distinguere tra momenti diversi. Le assicuro che questa è una rarità: sapesse quante volte ho pensato di eliminare i giocattoli vicino al lettino perché va sempre a finire che invece di intrattenere il bambino durante la visita diventano per loro il pretesto per evitarla. La verità è che suo figlio è un bambino molto ben educato."
C'è bisogno che io vi descriva le vette inesplorate che il mio orgoglio di madre a tempo pieno ha raggiunto in quel momento? E non è per la bella figura fatta: ci sono state e ci saranno tante occasioni per sentirmi imbarazzata di fronte ai suoi capricci e ai suoi attacchi di aggressività ma constatare che Matteo è un bambino che non stressa il prossimo suo e che anzi conosce e pratica una forma, magari ancora non raffinata, ma pur sempre apprezzabile di rispetto per gli altri mi ha dato la bellissima sensazione di essere una madre adeguata.
E quando siamo tornati a casa in mezzo al disordine imperante, alla onnipresenza di giocattoli, ai segni della lotta mattutina per vestirlo, alle decine di cose iniziate e non ancora finite ho pensato: "Chi l'avrebbe mai detto che nonostante l'apparente sfacelo sto crescendo un bambino educato, equilibrato e felice? ".



giovedì 22 marzo 2012

Fukushima, e poi...

 

Non è mai troppo tardi per ricordare chi non c'è più, anzi spero di non essere una tra gli ultimi a farlo.
Ho cercato un po' in rete e vi segnalo alcune cose da vedere e leggere. Vi invito a farlo perché è sempre un ottima cosa riflettere sul mistero del dolore umano e sulla sostanziale fragilità della vita.
Per prima cosa il bellissimo servizio "Quel giorno in Giappone" curato da Roberto Balducci per il settimanale del tg3 "Agenda del mondo" che potete trovare qui. Immagini e parole del Giappone un anno dopo, senza commenti giornalistici perché una tragedia così la può raccontare davvero solo chi l'ha vissuta.
Per avere un'dea chiara di come il terremoto di un anno fa ha cambiato il Giappone consiglio il reportage di Mauro Merosi per Rai News, si trova qui. Sarà che sono essenzialmente una mamma ma sentir dire da un'altra mamma " Io ho capito che è sbagliato essere ignorante e sono colpevole di esserlo stata" fa riflettere; se siete mamme o volete esserlo ascoltate questa donna. 
Un interessante punto di vista sull'attuale situazione di Fukuschima e sulla fattibilità del nucleare è quello esposto in "L'sola della paura" di Paolo Giordano la cui versione integrale (lunga ma ne vale la pena) si trova qui. Un fisico armato di conoscenza e contatore geiger alla ricerca della radiottività. Cosa pensate che farà quando l'avrà trovata?
Da veder anche il servizio "Il demone invisibile" di  Paolo Longo per "tv7" , lo trovate qui,dal minuto 49 circa.Come si gestisce il post Fukuschima nelle zone immediatamente contigue all'area contaminata? I problemi pratici, i dubbi ma anche la forza di chi è sopravvissuto.
Infine non posso dire niente sull'attendibilità di questo filmato ma l'ho trovato e ve lo segnalo con l'avvertenza: "astenersi cardiopatici e depressi".
Questo è quello che ho trovato, questo è quello che vi invito a vedere non tanto per capire ma come atto di pietà verso chi non c'è più.
Coraggio Giappone.

lunedì 19 marzo 2012

Auguri papà!

Caro papà: auguri!
Da papà hai combinato un sacco di pasticci

"chi mai sarà
cosa farà
un buon papà?"


E tu che ne potevi sapere?
Che queste domande te le eri fatte, da figlio, mille volte.
Ma nessuna risposta ti era sembrata altrettanto convincente
di un solo, piccolo ricordo
che, però, non avevi.

"E che ne so 
io non ce l'ho,
mò vedo un po' "


Caro papà auguri,
te li meriti
perché l'impegno ce l'hai messo.
Il mio nome l'hai scelto tu,
non piaceva a nessuno,
troppo duro, troppo adulto.
E per paura che qualcuno potesse approfittare del fatto che eri in ospedale
per chiamarmi in altro modo,
chiedesti di essere dimesso e andasti all'anagrafe.
Tu allora non potevi saperlo
ma crescendo avrei amato il mio nome.
Non per il suo suono (duro davvero)
né per il suo significato:
"tempio di Dio", per i miei gusti, è un tantino pretenzioso.
Io amo il mio nome
perché è lo stesso
di una donna
che ha visto il bambino che eri
e l'ha trattato con affetto.
Sarà per questo che anche a me capita, a volte,
di vedere quel bambino.

Ti sei impegnato papà
e io vorrei farti un regalo.
E non puoi protestare
perché è un regalo che non costa niente:
è un sogno, papà,
perché solo in sogno
si può regalare un ricordo che non c'è.
Allora, in sogno,
io ti riporterei a quel giorno di tanti anni fa
in quell'enorme camerata piena di bambini.
Sarebbe notte,
sarebbe silenzio
se non fosse per i lamenti di un bambino,
livido dalle punizioni ricevute.
All'improvviso la porta si aprirebbe
e ai tuoi occhi si presenterebbe la figura di un uomo
grande e grosso
che grida il nome del suo bimbo.
Invano i frati cercano di fermarlo.
I ragazzi gli indicano il letto di suo figlio
e lui vi si avvicina.
Fin qui i tuoi ricordi
ma adesso concentrati, papà, seguimi
ché da qui le cose inizierebbero ad essere diverse da come le ricordi:
perché quel bimbo saresti tu
e quell'uomo sarebbe tuo padre
venuto a prenderti per riportarti a casa.
E allora, per il resto della vita,
pensando a chi è un padre,
non avresti il ricordo di un uomo grande e grosso
che stringe il figlio tra le braccia
ma quello di un bambino che si rifugia sul petto di uomo
e dall'alto si sente al sicuro e forte.
E allora finalmente sapresti
come un padre abbraccia suo figlio.

E questo sarebbe il mio regalo per te.
Auguri papà.

mercoledì 14 marzo 2012

Abbagli

Ieri pomeriggio, col gigantino, siamo andati a messa. Era la messa per i sei mesi dalla morte di zio Isidoro, finalmente celebrata dopo il rinvio causa neve. L'ho voluta far celebrare proprio io, per richiamare formalmente la sua attenzione quaggiù, dove in così pochi mesi dalla sua scomparsa, certe situazioni, che pure lo riguardano perché lo hanno riguardato, stanno precipitando appena appena. Un modo per dirgli "zio, e tu che dici?".
Comunque, nonostante il grecale, ci siamo incamminati ma Matteo era un po' stanco e quando siamo arrivati era rimasto posto solo al primo banco. Non è che viva in un paese di cattolici ultras è solo che col freddo la Messa si celebra in una stanza di piccole dimensioni dove sono stati sistemati un altare, otto banchi e un confessionale. L'essenziale per entrare in contatto con Dio (tra perentesi, mi chiedo se tutto questo profluvio di spazi vuoti e di distanze con cui di solito vengono concepite e realizzate le chiese, sia in accordo con il senso dei riti che vi si celebrano dentro).
Insomma ci siamo trovati a trenta centimetri dall'altare e quaranta dal parroco; davanti a noi, su una parete di colore giallo limone, un bellissimo crocefisso francescano (dunque privo dei particolari cruenti che di solito caratterizzano questi oggetti) nel quale il Cristo sembra voler abbracciare chi lo guarda. La funzione è iniziata e subito l'attenzione di Matteo è stata richiamata dai canti e dal suono della chitarra che li accompagnava; in quell'ambiente ristretto le voci acquistavano una pienezza particolare come tendessero a convergere piuttosto che a perdersi nello spazio; persino quel tono vagamente lamentatorio, che sempre ricordo di aver colto nei canti delle messe pomeridiane, era quasi scomparso. C'era una forte spiritualità.
Dev'essere per questo che, nonostante la funzione sia stata relativamente lunga, Matteo è stato calmo e tranquillo: un po' ha giocato con un sasso che aveva raccolto per strada, un po' l'ho tenuto in braccio, un po' ci siamo parlati sottovoce: ad un certo punto mi ha sussurrato "mamma torniamo a casa?" ma è stato tranquillo fino alla fine. Poi ci siamo avvicinati alla chitarrista per salutarla (in realtà non la conoscevamo ma aveva suonato così sentitamente da suscitare un  naturale gesto di riconoscenza), Matteo ha ricevuto gli elogi delle signore presenti che si sono complimentate per la sua tranquillità e siamo usciti.
Ammetto che li per lì mi sono sentita orgogliosa del contegno del gigantino, di come sia stato buono e tranquillo.
Ma ripensandoci mi sta venendo una strana ansia: c'è davvero di che essere orgogliosi di un bambino che, a tre anni, dimostra tutto questo self control? 
"Che domanda è?", direte voi. E' la domanda tipo di una mamma-ex bimba perfetta, che aveva un talento eccezionale nel saper stare al suo posto, zitta e attenta.
Capirete dunque l'ansia che provo: le regole, la loro accettazione e condivisione sono lo scheletro di quella società civile in cui auguro a mio figlio di poter vivere, un giorno non troppo lontano, per cui non posso essere che felice se lui per primo impara a rispettarle.
Quello che mi dà pensiero è la capacità del bambino, del mio bambino, di rispondere alle aspettative degli adulti in generale e dei genitori, in modo particolare. Come per l'asilo: nonostante quasi ogni mattina Matteo mi dica di non volerci andare, non solo ci va ma le maestre continuano a ripetermi: "è l'alunno perfetto, non si vede e non si sente, signora. Non da alcun problema, calmo, tranquillo..." Però  quando torna a casa è sfinito, stanco e indispettito. C'è da avere paura al pensiero di cosa un bambino possa riuscire a sopportare se solo gli si fa capire che quella cosa, che a lui non piace, è per noi importante. 
Questa "dote" Matteo ce l'ha, l'ha ereditata da me; ma forse così è troppo semplice, magari la verità è che sono stata io ad averla seminata in lui  e coltivata.
Ci sono pensieri che a volte affiorano alla nostra mente disturbandoci e noi tendiamo a non dar loro peso e a passar oltre, eppure sono proprio quelli che dovremmo analizzare e comprendere.
Mi accingo a farlo.


lunedì 12 marzo 2012

Sentire il cuore

Ieri sera, dopo un intenso scambio di bacetti, il gigantino mi ha detto:

"Mamma coi toi bacetti mi dai il cuore"

Sicuramente l'avrà sentita da qualche parte,
(ma che gente frequenta questo bimbo?)
però è stata davvero una bellissima sorpresa.
Eh!

Venti minuti dopo:

"Mò ti acchiappio e ti schiaccio"

Ma si sà che in amore le parole non sono tutto...




lunedì 27 febbraio 2012

Assaggi di saggi: "La sfida della volontà - esperienze con i bambini piccoli -" M. Meyerkort, R. Lissau



Osserviamo che il bambino è spinto a muoversi, a fare uso di quanto gli consente il suo patrimonio anatomico e fisiologico. Tutti questi processi avvengono nella volontà del bambino: a livello dell'istinto prende forma la dinamica orientata al futuro del patrimonio corporeo. Le pulsioni ne costituiscono il dinamismo. L'individualità del bambino si manifesta già nella scelta delle attività -nel campo del desiderio- che genitori e maestri osserveranno, per cogliere qualcosa dei futuri sviluppi di vita, del karma di quel certo bambino.
Pensando a tutto ciò, siamo portati a chiederci: possiamo far stare sempre seduti, calmi e tranquilli, dei bambini sotto i sette anni? Un modo è stato quello di forzare il bambino alla sottomissione. "Non ti ho detto di stare seduto da bravo?" dice la maestra. Il risultato può essere quello di rendere un bambino debole, intimorito, che da adulto potrebbe sentirsi insignificante, tendere a ritirarsi in un angolino, a non distinguersi, o ad essere fisicamente e/o moralmente un codardo. I genitori e gli insegnanti d'oggi hanno a disposizione altri mezzi per far star fermo un bambino: la tecnologia moderna, la televisione, i videogiochi, e internet. Utilizzandoli, possiamo uccidere le forze creative nei nostri bambini, indurli al letargo e alla convinzione:"ho il diritto di essere intrattenuto". Inoltre, viene a  mancare lo stimolo a diventare un adulto creativo e dotato di senso critico, che può perfino essere distrutto per tutto il resto della sua vita."


Da chi, come me, conosce solo superficialmente la pedagogia steineriana non ci si può aspettare un resoconto puntuale di questo libro perché esso tratta temi molto complessi quali quelli della volontà e della sua crescita nel bambino in età prescolare, attraverso le tappe fondamentali del suo sviluppo psicofisico (camminare, parlare, pensare) e i suoi peculiari stati di coscienza (empatia, corporeità, ritmo).
Nonostante il libro abbondi di esempi concreti e di suggerimenti operativi su come accompagnare e stimolare lo sviluppo della volontà nel bambino, anche attraverso il lavoro sulla volontà dell'adulto (come sempre nella pedagogia waldorf non c'è crescita del bambino senza un intimo e personale coinvolgimento dell'adulto, da qui il senso della "sfida"), la specificità dei temi trattati richiederebbe, questa è la mia sensazione, una conoscenza preliminare dei concetti base della pedagogia steineriana.
Ciò che posso dire con sicurezza riguardo questo libro è quanto sia poetica e delicata la visione dell'infanzia che esso propone:

"Portiamo un gruppo di bambini in un grande parco. Fin dal momento in cui l'adulto si siede sotto un albero con tutti i cestini da pic-nic, diciotto bambini saltano e corrono in tutte le direzioni. L'iniziale vociare sotto i cespugli e gli alberi presto si trasforma in una specie di silenzio, che può durare qualche minuto. Poi ritornano, prima due, poi tre, poi un'intero gruppo, gridando: "Guarda, cosa ho trovato!" -"Guarda qui!"- "Guarda! Guarda!" E un bambino ha in mano un osso di pesca, un altro un pezzo di vetro, un bruco morto, o perfino un tocco di fango. Sono tesori. Se la maestra suggerisse di lasciarli perdere ("Buttalo via, è sporco"), dovrebbe presto ricredersi ("E' mio! Mi serve!").
Per l'adulto questa gioia di fronte alle cose più umili e scontate può essere una sorpresa. Il sasso lungo la strada per noi è inutile, non significa nulla. Per il bambino fa parte del  mondo è il mondo, che ora lui stringe nella sua mano. Poiché la sua coscienza si abbandona al mondo, dalla sua dedizione a ciò che è stato creato egli trae non un accrescimento di conoscenza, ma un solenne incontro con ciò che le forze divine hanno creato, un'esperianza che un artista può portare con sé nella vita adulta.

e al tempo stesso quanto grande l'impegno che si chiede a genitori ed educatori:

"Quando osserviamo lo sviluppo del bambino nei primi sette anni di vita, e riconosciamo la preponderanza della vita di volontà a quell'età, comprendiamo la tremenda responsabilità per cui è la nostra attenzione di adulti che in larga misura modella la crescita della donna e dell'uomo di domani"

nonché grandiosi il fine e il senso di questo lavoro:

"L'impegno nel portare avanti seriamente la nostra autoeducazione ci porta, passo dopo passo, verso un nuovo atteggiamento sociale: a sentire che, insieme, abbiamo delle responsabilità verso il nostro pianeta e tutta la sua vita."

Debbo ammettere che se i continui riferimenti ad una dimensione spirituale fatta di esseri superiori che ci guidano e ci sostengono, mi ha spiazzata, gli esempi concreti di cosa genitori ed educatori possono fare in un asilo waldorf mi hanno fatto percepire la pochezza di ciò che sto facendo per educare mio figlio:

- Le maestre potrebbero aiutare in casa, quando un membro della famiglia è malato.
- Possiamo far parte di un coro locale o di un'attività sportiva, se ci fa piacere.
-Con l'aiuto di genitori e amici, la maestra può presentare uno dei suoi teatrini di marionette presso biblioteche per l'infanzia, ospedali, case di riposo.
-Una o due volte a settimana si potrebbe invitare una persona anziana a venire a sedersi tranquillamente per qualche ora in un angolo dell'asilo, col suo lavoro a maglia o di cucito, o d'intaglio del legno.
.
Forse sono solo belle parole eppure se avessimo la forza, il coraggio e la dedizione necessari...


venerdì 17 febbraio 2012

Il grande gelo: effetti collaterali ;(

Nevica così una volta ogni trent'anni, proprio adesso che avevo trovato un lavoro. Due giorni di assenza e: licenziata! Anzi, per essere precisa, in stand-by in attesa che ad una delle mie colleghe passi il nervosismo per essersi trovata ad affrontare tutto il lavoro da sola, "soprassediamo un pò" mi ha detto la mia datrice di lavoro, "sai Samantha è per me indispensabile e mi ha detto che non ti rivolgerà mai più la parola e tu capisci che in questo clima non potete lavorare bene". Ma io lo so che tanto è finita qui, perché la Samantha, giovine resa dura dalle difficoltà che una vita in terra straniera (con figlio adolescente a carico) comporta, su di me ci ha messo una croce. Me l'ha detto quando l'ho chiamata pensando di doverle chiedere scusa anche se non ce ne era motivo, pensando che se fossi riuscita a farle capire la mia buona fede, magari la mia datrice di lavoro ci avrebbe ripensato. Il bello è che a forza di pensare ero riuscita davvero a trovare qualcosa di indelicato nel mio comportamento e ne ero sinceramente rammaricata; invece da quella telefonata (che adesso rimpiango di aver fatto) si è capito che

  1. la Samantha è una vera s....za la quale s'è n'è fregata delle mie lacrime e delle mie suppliche e ha anzi trovato la lucidità mentale per elencare tutte le mie carenze tecniche, oltre che umane. Tutto ciò che non mi è stato detto quando poteva essermi utile, mi è stato rinfacciato quando ormai serviva solo a farmi stare male.
  2. Nonostante l'aspetto delicato e comprensivo e i temporeggiamenti, la "padrona" deve essere a sua volta insoddisfatta di me altrimenti non avrebbe permesso ad una sua dipendente, per quanto brava e servile, di decidere del futuro lavorativo dell'altra.
  3. Le persone possono raggiungere livelli di ipocrisia che, nonostante le esperienze accumulate, continuo a registrare in costante aumento.
E adessso considero che è meglio non avere niente a che fare con gente che, nonostante l'abbondanza di immagini sacre che riesce a stipare dentro casa, alla fine è intimamente convinta che la sua vita valga di più di quella degli altri (perchè c'era davvero da rischiare ad uscire di casa in quelle condizioni e nonostante io lo abbia fatto per due giorni la cosa non è stata significativa) e mi dico "anche se mi dovessero richiamare io non ci torno a lavorare con una che è talmente incattivita da vedere in ogni persona che incontra un nemico, una che pensa di avere il monopolio delle difficoltà della vita solo perché ha commesso qualche errore quando era poco più che una bambina".
Però rimane il fatto che il lavoro l'ho perso e non ho ancora nemmeno avuto il primo stipendio (dice che la neve ha ritardato la compilazione delle busta paga, ma dai!?) e che la mia autostima l'ho intravista mentre si nascondeva sotto il tappeto all'ingresso qualche giorno fa e non ho cuore di andare a vedere se è ancora lì o se nel frattempo si è buttata dalla tromba delle scale.
Come si fa a perdere un lavoro così semplice dopo poco più di un mese dall'assunzione?
Intanto sto aspettando che la "signora" mi convochi per liquidarmi, magari ci capirò qualcosa di più, per adesso posso dire solo che ci sono rimasta malissimo e tanta è la mia delusione e il mio abbattimento che dispenso voi, cari lettori e care lettrici, da qualsiasi vano tentativo di consolarmi o incoraggiarmi.
Non ce la potete fare! Non adesso perché non ho ancora finito di rimproverarmi, autocommiserarmi e disperarmi, debbo ancora toccare il fondo e quando ci sarò arrivata potrò finalmente da passare da questo


che rende bene l'idea di come mi sento adesso, a questo


e io lo so che ce la posso fare! Prima o poi.




lunedì 6 febbraio 2012

Il grande gelo: saluti dal medioevo!

Ragazzi che fine settimana da paura: neve come non ne ricordavo da anni, freddo estremo, tre giorni (tre!!!) senza corrente elettrica a ottocentocinquanta metri sul livello del mare, senza linea telefonica, con un  chilometro di tornanti a separarci dal resto del mondo. 
Aveva nevicato mercoledì ma poca cosa, giovedì siamo persino andati a Roma (ma con il pandino 4*4), venerdì sono andata a lavoro e non ha smesso un attimo di nevicare. Tornata a casa la corrente elettrica mancava già e non è più tornata. Non è un problema di televisori, luci, computer e forni: si tratta di riscaldamento. Da noi solo i miliardari riscaldano le case col gas, perlopiù tutti abbiamo termocamini o termostufe a legna o pellet, ebbene questi splendidi congegni non possono funzionare senza elettricità. Immaginate di stare dentro casa a dodici-tredici gradi massimi, con le mura che cedono calore man mano che i giorni passano, col vostro bimbo che inizia a tossire perché per quanto lo copriate è l'aria che respira ad essere troppo fredda. Tre giorni a sperare perché "che diavolo non si può abbandonare un intero paese a se stesso così" e invece si può fare. 112: occupato, 113: occupato, 115: libero ma senza risposta, 118: occupato(!!!). 
E intanto tu non sai niente perché l'Enel ha le linee intasate, non c'è televisore, ne internet, ne telefono; c'è solo una radiolina a pile che accendi saltuariamente per fare un rapido giro (che se si scaricano le batterie allora è finita) alla ricerca di notizie e tutto quello che trovi sono canzoni, spot e notiziari tanto brevi quanto vaghi. Esci per camminare e scaldarti, per goderti il panorama, per controllore che la vecchia zia che si rifiuta categoricamente di lasciare casa sua stia bene e con lei le sue galline. Torni a casa prima che faccia buio per preparare tutto quello che ti serve per quando la luce non ci sarà più e le tue candele (di ogni forma, colore e profumo tu sia riuscita a scovare dentro casa) non faranno abbastanza luce da permetterti di capire se il pollo che hai messo in padella sia cotto o meno. Vai a dormire ad ore che non credevi fossero fatte per dormire, ti svegli quando di solito andavi a dormire, apri la finestra, punti la candela e constati che nevica, ancora. Ti svegli la mattina e nevica e niente elettricità, il telefonino non prende o comunque è scarico ma qualcuno passando davanti casa tua ti avverte che tua suocera è riuscita a raggiungere gli amici più vicini.
E' il secondo giorno: sei meno nervosa e pensi che oggi è il giorno giusto, macché! Ti rassegni a constatare che quello che hai nel tuo congelatore nuovo di zecca rischia di scongelarsi e, con quel poco di cervello ancora funzionante (il resto è intorpidito dal freddo) realizzi che la tua rovina sarà la salvezza delle tue scorte: via a riempire buste di neve da stoccare nell'inutile elettrodomestico. Intanto la sera si avvicina e le candele scarseggiano, le mura della casa stanno rovinosamente freddandosi e tu inizi ad accusare i primi sintomi del congelamento. Vai a dormire (con due pigiami, due paia di calzini, due coperte in più). 
Ti svegli: è il terzo giorno, ancora niente corrente. Ecco adesso sei moderatamente irritata: prendi l'elenco telefonico e sfrutti la rediviva linea per chiamare l'emittente locale più vicina e fare un quadro completo del dramma che stai vivendo e quando la gentile voce femminile ha un attimo di perplessità al sentirti dire che sono tre giorni (tre!!!) che sei senza elettricità, riesci anche a sperare che qualcosa accada.
Difatti... dopo pranzo, nonostante la nebbia, tuo padre riesce a "bloccare", letteralmente, una macchina dell'Enel e a far scendere l'ex collega in gita turistica con due giornalisti armati nientemeno che di telecamera ("questi come minimo sono della Rai"). Invece di salutare calorosamente gli escursionisti e congratularsi per la "tempestività" dell'intervento, il papà guerriero inizia ad insultare (beh, uno che per anni ha ridato corrente elettrica a mezza provincia a qualsiasi ora del giorno e della notte e con ogni tipo di condizioni atmosferiche, può permetterselo) e minaccia tenere il gruppo in ostaggio e di rilasciarli solo in cambio di un intervento finalmente risolutivo. Ma mio padre è, alla fine, una brava persona e, considerando che il lavoro di un giornalista non può dirsi finito se il suddetto non riesce a recarsi là dove la notizia potrà prender forma ed esser divulgata, alla fine rilascia i malcapitati. 
Torna alle sua attività, ci torniamo anche noi, rassegnati più che mai. Tutto procede finché, all'improvviso, MIRACOLO: torna la corrente elettrica e contestualmente il sorriso sul viso di tutti anche di quelli che, malfidati, ancora aspettano a riaccendere stufe e camini perché "come è tornata, potrebbe riandar via". I cumuli di neve sono ancora tutti lì, le strade ancora impercorribili, i parenti ancora variamente dispersi ma c'è l'elettricità, ah, ah, ah!
E mentre finalmente stai cenando potendo vedere quello che hai nel piatto, al caldo e col  televisore acceso sul tg nazionale, distrattamente senti un nome familiare provenire dal congegno catodico (tu ancora hai il catodico perché: o congelatore o plasma) e ci metti un attimo a capire che stanno parlando del posto in cui vivi, che quelli davvero erano giornalisti (e non dirigenti Enel camuffati per sfuggire all'ira degli autoctoni, come sosteneva tuo padre, pentendosi dell'avventato rilascio) e che quello che hai passato davvero è disavventura degna di essere segnalata all'attenzione nazionale. 
E che cavolo!!!

PS: meno male che il referendum sul nucleare è andato: se si votasse domani, alla luce (ah, ah!) dei recenti eventi, non so, come voterei.


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